venerdì 7 settembre 2012

Frozen Tears - Metal Hurricane

Steelheart/Adrenaline – 2004 (Heavy Metal)
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L’attacco energico e rapidissimo di “Inner Vision” ci scaraventa all’interno dell’uragano metal. La scelta dell’opener è decisamente azzeccata perché presenta nell’arco di pochi secondi ogni elemento della band al massimo della sua energia. L’intero impianto è possente, carico di agganci melodici, sezioni più tecniche mai stucchevoli e soprattutto dotato di riff efficace. Batteria, basso e chitarra ritmica costruiscono insieme un’imponente architettura su cui fanno perno le indiavolate irruzioni sonore di voce e chitarra solista che si chiamano e si rispondono vicendevolmente già a partire dall’assolo iniziale che sembra schizzare la prima linea melodica vocale; la voce riesce a spaziare in ogni registro (dal petto al falsetto) mantenendo il caratteristico colore sporco anche nelle parti più impostate o intrise di lirismo. Se il muro sonoro della sezione ritmica dipinge la voce del vento e del mare, l’assolo descrive lo stato di tensione che precede la tortura delle ‘visioni interiori’: parte a fatica, dominato dalle esitazioni della ritmica, poi si libera in velocità e infine si scioglie, aprendosi sull’armonia che sosterrà anche l’ultima sezione di cantato; continuerà con ossessivi passaggi, quasi a suggerire immagini che non si riesce ad allontanare dalla mente, a incalzare la voce, che però resta la protagonista di quest’ultima struggente sezione; lancinante lo sviluppo all’ottava superiore, supportato da un preciso lavoro ritmico (la batteria dimezza gli accenti e scarica la tensione accumulata finora). Le ultime immagini d’incubo sono scacciate dalle veloci figure del basso.

“Forgotten Words” fotografa il lavoro complessivo: un buon prodotto classico. I punti di riferimento sono Judas Priest, Saxon e Iron Maiden, pur affacciandosi qua e là lievi influenze legate a thrash, speed e power teutonico; il tutto confluisce in un insieme, strutturato sì in modo tradizionale in ambito metal, ma dotato di forte personalità. Ciascun musicista si occupa della sua parte con tecnica impeccabile, ma allo stesso tempo con fantasia e gusto, senza eccedere o sconfinare nell’incolore. Le armonie sono complesse e impegnano la voce, sciogliendola per tutta la sua estensione, in frasi a cui risponde la chitarra solista, quasi fosse un secondo interlocutore; ed è proprio la chitarra solista a chiudere il brano, all’improvviso.

“Your life slows down” è sicuramente uno dei pezzi di maggior presa immediata dell’album. Se le strofe e il bridge hanno un retrogusto AC/DC o Accept, il ritornello (e non ultimo l'intro rumoristica) tocca accenti di teatralità kissiana. La voce dà come al solito il meglio di sé nelle parti in cui drammatizza, usando più d’un registro all’interno della stessa sezione (gli intervalli sono ampi e complicati da eseguire). Le chitarre giocano a rincorrersi quasi fossero due Harley, e la sezione ritmica si diverte a sostenerle spostando talvolta gli accenti sulla strada (o addirittura sbarrandola).

“The sound of infinity” si configura come una sorta di speed thrash dalla ritmica durissima. La batteria è instancabile e gli scambi sono da tachicardia. Basso e chitarra ritmica appaiono matematici, l’assolo della chitarra solista lancinante, la voce concitata: il finale li riunisce bruscamente tutti all’unisono.

In “The right side of the world”, la storia di Luis che lotta per la libertà nella “parte sbagliata del mondo” (nell’indifferenza di chi vive in “quella giusta”) è particolarmente drammatizzata dall’interpretazione vocale. Giocata sui controtempi, vede numerosi cambi di ritmo. I cambi e gli stacchi di batteria esaltano le numerose idee melodiche (assolo compreso) ma, probabilmente, il vero hook del brano è nel riff (che vede addirittura una sorta di ‘contro – hook’ nella progressione di basso sottostante). La cura degli arrangiamenti rende questa traccia una delle più ricche e interessanti dell’intero lavoro, fino alla decisione di incorniciare il brano chiudendolo col riff prima ‘nudo’, come in apertura, poi raddoppiato, con le chitarre in contrappunto.

Quello che un tempo si chiamava “New Wave of British Heavy Metal” e oggi ormai solo e semplicemente “classic metal”, trova in “Fear of tomorrow” il brano più esemplificativo, senza altri tipi di contaminazioni: strofe aggressive e graffianti, ma ritornello ‘innodico’ dalla melodia distesa e dalla vocalità aperta. L’altro punto di forza si trova nel lavoro di squadra delle due chitarre e nella costruzione dei riff: tipici ma efficaci. Quello che sembra un nuovo finale brusco si chiude in realtà sul desiderio di rinascita (o di ‘ritorno’ a tempi migliori: “I want to come back to the age of the sun”) e rende meno inatteso l’episodio successivo.

Dopo il melanconico assolo iniziale che sembrava di preannuncio alla rituale ballata, si inserisce un breve innesto strumentale dal sapore ‘progressivo’: “Western sun.” La ballata c’è, ma senza parole. Dove la crudeltà dell’uomo porta violenza e ingiustizia, c’è forse ancora un piccolo spazio (o un piccolo attimo) per la silenziosa contemplazione della natura.

Se inizialmente sembra di trovarsi di fronte a un nuovo brano di stampo classico, sullo stile della traccia 6, con “The Evil” siamo subito spiazzati dai ripetuti cambi di tempo e dal progressivo allungarsi della struttura (con i suoi oltre 6 minuti è la traccia più ampia dell'intero CD): assai complessa, e largamente dominata dalla sezione ritmica (anche il basso si lancia in episodi solisti), si dipana tra passaggi aggressivi e melodici, drammatizzati e strumentali, veloci e distesi.

Il classico puro torna in “Rebel soul.” A livello verbale si contraddistingue per il testo probabilmente più rappresentativo dopo quello iniziale. Se le tematiche e le storie rappresentate nel corso dell'album hanno agganci materiali o comunque esteriori, pare che l'ultimo brano voglia riportarci alla vera essenza della ‘quest’, iniziata con le ‘visioni’. La ricerca è in realtà interiore: uragani, tempeste di fuoco, o semplicemente certi mali della società contemporanea, sono solo pretesti per sondare il male interno all’uomo stesso (e il “Lord of the Dark” del brano precedente lo aveva presagito). I temi sono distanti sia dalle tipiche ambientazioni fantasy del power sia dalle dai bellicisti incitamenti della ‘milizia metallica’; sofferti, descrittivi di sensazioni, stati d'animo o situazioni problematiche in genere, risultano semmai introspettivi, alla maniera del secondo James Hetfield.

La cover finale di “Some heads are gonna roll” dei Judas Priest, curiosamente, non porta la firma di nessuno del gruppo, ma del compositore newyorkese Bob Halligan (per lui hanno inciso, tra gli altri, Blue Oyster Cult, Joan Jett, Cher e Michael Bolton), ma risulta tuttavia un ottimo modo per far emergere, col confronto diretto, lo stile personale del gruppo.

Irene Vanni, Febbraio 2005





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