martedì 16 ottobre 2012

Dossier Dino Buzzati

Quest'anno ricorre il quarantennale della morte di Dino Buzzati, ma è nel giorno del suo compleanno che preferisco postare questo vecchio articolo comparso originariamente nel 2009 sulle pagine di Writers Magazine Italia. Si tratta di un ritratto del suggestivo e versatile scrittore ricostruito attraverso le lettere inviate al compagno di scuola Arturo Brambilla. Buona lettura!

DINO BUZZATI: Un ritratto attraverso le lettere all’amico Brambilla

[Writers Magazine Italia - Anno 5 - Numero 16 - Ottobre 2009 (pp. 6-12)]

Dino Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, nei pressi di Belluno, nella villa cinquecentesca di proprietà della famiglia, in un contesto di alta borghesia veneta dalle solide tradizioni. Il padre Giulio-Cesare Buzzati-Traverso, nato a Venezia da genitori bellunesi ma di lontana ascendenza ungherese, è professore di Diritto Internazionale all’Università di Pavia e alla Bocconi di Milano, e per questo costringe la famiglia a lunghi soggiorni nel capoluogo lombardo; la madre, Alba Mantovani, di provenienza veneta, è sorella di Dino Mantovani, autore della prima monografia su Ippolito Nievo e ultima discendente della famiglia dogale dei Badoer Partecipazio. Dino è il secondogenito di quattro figli: Augusto, Angelina e Adriano sono gli altri fratelli; l’uno ingegnere; l’altra sposa allo scrittore e disegnatore Giuseppe Ramazzotti; Adriano, infine, scienziato di fama mondiale.

LE LETTERE A BRAMBILLA

Migliore amico di Dino Buzzati, sin dall’adolescenza, è Arturo Brambilla, noto giurista e latinista, nato nel 1906 e morto nel 1963, nove anni prima dello scrittore. Ed è fra le opere postume dello scrittore, che troviamo, appunto, le “Lettere a Brambilla”.
Dino Buzzati scrive al suo migliore amico per oltre trent’anni. E su quelle lettere prende forma l’autobiografia di uno scrittore che si racconta nella sua vita quotidiana, con la schiettezza di chi sa di parlare a una persona in grado di ascoltarlo e disponibile a comprenderlo. Si tratta di una fitta corrispondenza che offre un prezioso contributo e che, meglio di qualsiasi saggio, si configura come un’introduzione alle opere dello scrittore e giornalista. Nelle lettere ad Arturo, Buzzati svela il perché delle sue scelte, racconta la nascita dei suoi lavori, e soprattutto offre “l’eccezionale cronaca della sua crescita umana e intellettuale” (Luciano Simonelli).

NASCITA DI UN’AMICIZIA

Dino e Arturo si erano incontrati il primo giorno di scuola del 1916 sui banchi della prima ginnasio al “Parini” di Milano; fra il primo, di famiglia alto-borghese, e il secondo, figlio di un pittore che insegnava disegno e calligrafia, era scoccata subito la scintilla dell’amicizia. Ma questa amicizia si rafforzò nel 1919 (anno d’inizio dell’epistolario), quando i due ragazzi iniziarono a trascorrere insieme i pomeriggi invernali facendo i compiti, scrivendo racconti, disegnando e fantasticando. I due presero a scriversi tutti i giorni specialmente d’estate, quando le vacanze li separavano.

PASSIONI COMUNI

Se già a partire dagli otto anni Dino è un piccolo genio, tenta il pianoforte e suona il violino, è chiaro comunque ciò che prova nei confronti di certe imposizioni dalle righe che scrive ad Arturo il 7 novembre del 1919: “Caro Brambillino, io sono dispiacentissimo di doverti dare un’orrenda notizia. Oggi c’è un concerto di un celebre violinista e la mamma, perché studio il violino vuole che ci vada”.
Per questo motivo i due amici devono rimandare le loro corse in bicicletta, grande passione di Buzzati adolescente. L’entusiasmo per Girardengo e quello per il disegno, lo portano a imprimere sulla carta da lettere innumerevoli schizzi di corse e classifiche di gare e campionati.
Spicca, fra questi interessi, la scoperta della civiltà dell’antico Egitto. I due ragazzi si sbizzarriscono fino ad alterarsi i nomi ‘all’egiziana’: Arturo diventa Ar-Tueris e Dino si trasforma in Dinophis; non solo, ma comunicano con un alfabeto di geroglifici di loro invenzione.
Inizia poi fra i due una gara: scrivere un poema su una divinità egizia. Arturo sceglie Horus, il dio solare dalla testa di falco, mentre Dino preferisce Anubis, il dio-sciacallo che guida nell’oltretomba le anime dei morti. “Il fatto che Buzzati, destinato a essere ossessionato, per tutta la vita, dall’idea della morte, sia stato attratto, ad appena tredici anni, da una divinità funeraria” scrive Simonelli, “ha per noi il valore di un presagio”.
“Andava un giorno per le nebbie orrende/il divo Anubis tutto bene armato;/Mettea ruggiti orrende dalle fauci/E cacciava i leoni via fuggenti./E come quando nereggiante nube/Cupa s’avanza all’orizzonte, e tutto/copre il sole fulgente nello spazio/caligin tetra via si spande attorno;/a questa guisa ad i leon parea/il divo Anubis via guizzante e tetro...”.
Ma la passione più grande è quella per la montagna. Durante l’estate del 1920, infatti, Dino comincia le prime escursioni sulle Dolomiti e inizia a disegnare soggetti montanari, affascinato dalle illustrazioni fantastiche di Arthur Rackham (scoperto grazie al padre pittore di Arturo).
È nel dicembre di quest’anno che scrive il suo primo testo letterario vero e proprio: “La canzone delle montagne”.

CRESCERE

Sempre nel 1920 muore Giulio Cesare Buzzati per un tumore al pancreas e Dino, a soli quattordici anni, comincia a nutrire il timore di essere colpito dalla stessa malattia del padre. Ecco che, a venti, scrive così ad Arturo: “Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare miseramente la vita, in cui mi accorgo del mio terribile egoismo, mi accorgo che sono intelligente come tutti gli altri uomini, che davanti a me si apre l’aurea porta della mediocrità, per sempre. Senza una briciola di volontà, con un orgoglio infame, non riuscirò a nulla”.
Seguendo poi la tradizione familiare, Dino si laurea in legge a Milano con una tesi intitolata: “La natura giuridica del Concordato”.
Fra il ‘26 e il ‘27 assolve il servizio di leva. È sergente nella caserma di Teulié di Milano e comincia ad amare ciò che gli altri giovani militari odiano: la disciplina, l’uniforme, il dovere, gli orari e l’obbedienza.

AL “CORRIERE DELLA SERA”

Finita la leva, Buzzati fa domanda di assunzione al “Corriere delle sera” e vi entra il 10 luglio del 1928, da praticante, senza voler raccomandazioni, anche se il padre aveva collaborato al giornale negli anni passati.
Sarà uno dei più imperterriti giornalisti d’Italia. Devozione e disponibilità caratterizzeranno il suo lavoro, dall’iniziale mansione di cronista (che tenne per sette anni), agli incarichi successivi di ‘vice’ del critico musicale, redattore per le province, inviato speciale, corrispondente di guerra, elzevirista e redattore capo. Nel periodo iniziale fu però guardato con poca benevolenza dai colleghi e, frustrato, a pochi giorni dall’assunzione, scrive così a Brambilla: “Al giornale la mia vita non è brillante, mi pesa incredibilmente il fatto che finora nessuno s’è accorto, modestia a parte, di quello che sono io. Ho fatto la figura dell’idiota, e prevedo una fregatura (...). Procedo con giorni di scoraggiamento e altri di stupido orgoglio”.
Buzzati continua a sbagliarsi sulle proprie potenzialità, tende a scoraggiarsi, tanto che il 15 febbraio del ‘30 scrive ancora ad Arturo: “Io nel Corriere sono un incapace; non so più come mi tengano. Sono lento, terribilmente; per fare presto faccio, nella cronaca, dei pezzetti che poi mi correggono, talora rifanno completamente. Scorgo sorrisi di compatimento e silenzi imbarazzanti, mi chiudono fuori dalle confidenze (...). A poco a poco, senza accorgermi, ingannato anche dal prossimo, mi sono ridotto allo stato di un quidam qualsiasi, non fallito perché costretto a scegliere una professione non adatta, ma bocciato alla prova da lui stesso desiderata. Questo mi dà dolore, mi riempie di tristezza, mi fa rivolgere a te”.
In realtà, Buzzati andava proprio in quel tempo maturando la sua arte attraverso il contatto con il pubblico e non è un caso che nel 1931 inizi la collaborazione al settimanale “Il Popolo di Lombardia” con note teatrali, racconti, e soprattutto come illustratore.
Proprio durante questi anni, cominciano a prendere vita, incorniciati dalle Dolomiti, anche i suoi più noti personaggi, fra cui Barnabo, il protagonista del primo romanzo. Ed è nel periodo in cui Dino è allievo ufficiale al campo di Spinga (20 luglio 1927) che scrive: “Poi questo bosco resterà deserto e tacerà giorno e notte e tutti questi uomini scompariranno per il mondo e io tornerò in un melanconico treno nell'ombra grigia. Fino a novant’anni, nei tramonti verranno le speranze belle, ogni anno di meno, perché ogni anno ne lascerò per la strada qualcheduna”.
Ma qui parla già Giovanni Drogo, il protagonista de “Il deserto dei Tartari”. Dino e Arturo non sono più ragazzi.

DUE STRADE DIVERSE

“Sensibili entrambi fino al limite del morboso” prosegue Simonelli, “disarmati di fronte alle cattiverie della vita, ansiosi in ogni rischio, assillati da dubbi, angosce e inquietudini a non finire”. Secondo Buzzati è proprio per questi motivi che fra lui e Arturo è nata un’amicizia così lunga e duratura. È altrettanto vero, però, che i due amici sono molto diversi, soprattutto per quanto riguarda le ambizioni. Dino aspira al successo e Arturo non ne è sfiorato neppure dal pensiero; difatti assumono ruoli diversi nella storia della loro amicizia. Buzzati scrive, si angoscia perché le sue prove non lo soddisfano: è alla costante ricerca dell’idea per un racconto, un romanzo. Quando gliene viene una che lì per lì gli sembra buona - racconta spesso all’amico - si affievolisce subito appena tenta di metterla sulla carta. Ormai è finito il tempo delle gare a chi scriveva il miglior racconto o faceva il miglior disegno. Quando era soltanto un gioco, Arturo vi partecipava appassionatamente; quando per Dino si trasforma in una scelta di vita, l’amico si mette da parte.
Buzzati sostiene che anche Arturo avrebbe le qualità per fare qualcosa di buono nella letteratura, ma gli manca l’ambizione, oppure glielo impediscono i casi della vita. Brambilla infatti non vive in floride condizioni economiche e deve dare una mano alla famiglia. È ancora studente liceale quando comincia ad arrangiarsi facendo qualche lezione privata.
Le diversità di ruoli nel romanzo della loro amicizia appaiono evidenti, appunto, dopo la fine del liceo. Arturo e Dino prendono strade diverse: l’uno si iscrive alla Facoltà di Lettere, l’altro a quella di Giurisprudenza. Arturo ha già deciso che si dedicherà all’insegnamento nei licei, Dino vuole tentare la carriera di giornalista e realizzare i suoi sogni letterari. È così che, mentre Dino Buzzati prosegue lungo la strada della carriera di scrittore, Arturo Brambilla diventa soltanto spettatore della sua maturazione, anche se privilegiato e attivo. È un punto di riferimento sicuro, colui al quale Dino sottopone ogni sua prova chiedendo consigli e giudizi.

LA NASCITA DEI ROMANZI

Nel ‘33 Buzzati pubblica “Barnabo delle montagne” e nel ‘35 “Il segreto del bosco vecchio”. Il momento della pubblicazione del secondo è difficile: l’Italia è in guerra con l’Etiopia, Hitler inaugura le leggi razziste, la censura cresce. Il fascismo ha realizzato il primato dell’azione sul pensiero. Buzzati è, in realtà, in un angolino del panorama letterario del tempo. Non è certo nel novero degli intellettuali mal sopportati dalla dittatura, ma nemmeno in quello che al duce dedica componimenti o libri, né tantomeno fra coloro che coniano slogans per il regime.
Non molta chiarezza quindi, ma è sbagliato tacciare Buzzati di collaborazionismo perché non si mosse mai dal Corriere per tutto l’arco del fascismo. Non a caso fu lui a redigere fra la notte del 25 e 26 aprile del ‘45 l’articolo che, dalla prima pagina del Corriere, annunciava la Liberazione.
Nel ‘39 Buzzati inaugura la sua carriera di inviato speciale proprio in Eritrea; in Africa ebbe modo di formare la sua idea di deserto e si guadagnò una medaglia spronando i compagni.
Il 1940 è l’anno dell’entrata dell’Italia in guerra. Buzzati, lasciata Addis Abeba in aprile, stava per tornarvi dopo una breve licenza quando, sospese le navigazioni verso l’Africa, venne imbarcato dall’incrociatore Fiume come corrispondente di guerra; poi, dal Trieste, visse e descrisse le battaglie del Golfo della Sirte. Dunque, “Il deserto dei Tartari” completò il suo iter editoriale senza le cure dirette dell’autore. Nel gennaio del ‘39, infatti, Buzzati aveva affidato il manoscritto ad Arturo Brambilla perché lo consegnasse a Leo Longanesi, che stava preparando una nuova collezione per Rizzoli denominata “Il Sofà delle Muse”. Su segnalazione di Indro Montanelli, questi aveva accettato la pubblicazione; tuttavia, in una lettera, Longanesi aveva pregato l’autore di cambiare il titolo originario “La Fortezza”, per evitare ogni allusione alla guerra ormai imminente. Occorreva poi cambiare ogni ‘lei’ in ‘voi’, in base alle disposizioni fasciste, e Dino invocò ancora l’aiuto di Arturo. L’amico di sempre non si tirò indietro.
Un esempio di consulto fra gli amici si ha nel luglio del ‘31 quando, dopo una prima deludente stesura di “Barnabo delle montagne”, Dino scrive a Brambilla: “È stato per me un vero dolore che il primo pezzo, dove mi pare di aver fatto dei pezzi bellissimi, ti sia parsa una cosa insignificante. Quello che è difficilissimo è riuscire ad essere sincero o meglio conservare il mio vero carattere e nello stesso tempo essere efficace (...). Tanta semplicità, secondo me, deve essere l’abolizione assoluta di tutti i cretini pezzi descrittivi o anche delle impotenti descrizioni psicologiche che impugnano miserabilmente tutti, anche i belli romanzi moderni”.
Buzzati ribadisce una critica provocatoria già riportata all’amico anni addietro, nel novembre del ‘24: “Mi vado convincendo che per fare le descrizioni di paesaggi, anche quelle famose, non ci vuole abilità, ma occorre essere dei bei boia, perché tutte annoiano, nessuna riesce allo scopo e sono tutte uguali. E “Quel ramo del lago di Como” mi fa pietà e tutti quegli idioti che lo chiamano bello”.
A tal punto è curioso notare cosa scrive nel ’35, riguardo la letteratura contemporanea: “Ho la netta impressione che tutta la letteratura veristica, quale oggi si va praticando, dal classico romanzo d’amore ai racconti tipo Moravia, non abbia una vera ragione di esistere (...). È un’obiezione cretina, se si vuole, ma fino a un certo punto. Bisognerebbe scrivere qualcosa di cui il pubblico non possa non interessarsi, anche se, come nel caso di Kafka, non la legge”.

IL SUCCESSO

All’altezza del ‘45, anno che segna la fine della guerra, la biografia di Buzzati registra un’esemplare quantità di racconti apparsi un po’ ovunque e che diventerà ancora più consistente lungo il suo cammino creativo.
Negli anni ‘50 e ’60, poi, Buzzati è un piccolo mito, sia in Italia che all’estero. Da noi tiene mostre di pittura e vince numerosi premi letterari (fra cui lo Strega, nel ’58, per “Sessanta racconti”) e in Francia un suo copione viene adattato da Camus e rappresentato a Parigi. Le sue opere continuano a essere rappresentate a teatro, alla radio e in seguito alla televisione.

LE DONNE

Nel ‘61, la signora Alba Mantovani, novantenne, muore: un cordone psicologico teneva Buzzati legato alla madre, con la quale aveva vissuto fino a due anni prima della sua scomparsa, tanto che scriverà la cronaca interiore del funerale in un elzeviro (“I due autisti”).
Non è un caso che nei suoi primi racconti non appaia mai una donna, né che i fratelli non si siano mai sposati ed egli stesso abbia deciso di farlo solo a sessant’anni. Lo stesso Buzzati, nel corso di un’intervista, affermò: “Finché è stata viva, io sono vissuto con lei e non ho desiderato farmi una famiglia”. “Una madre tenera ma anche possessiva” infierisce Simonelli, “di qui un’educazione rigida, inibizioni e la conseguente paura della donna e dell’amore”.
“L’assenza della donna nella produzione maggiore di Buzzati è frutto di una censura materna” aggiunge Attilio Cannella, “che ha legato l’amore a un senso di colpa”. Del resto, Buzzati stesso dichiara di avere “una timidezza spaventosamente ridicola”.
La prima volta che, diciottenne, confida a Brambilla una delusione d’amore, si esprime infatti così: “Non credere però che io sia innamorato, nemmeno lontanamente. Ora mi persuado che non posso far niente per la mia incapacità e mi rassegno a non pensarci nemmeno. Se ero a casa mi sentivo pronto a fermarla, ma poi, quando le ero un po’ vicino, mi pareva di essere interrogato da qualche Esaminatore Statale, e dovevo lasciarla andare maledicendo me stesso”.
Spesso sbotta con esclamazioni come: “Se potessero essere qui almeno delle pupe...”, e in una lettera del luglio del ‘27 si legge: “E cresce l’amarezza e l’odio per il genere umano, un vero odio e guardo le pupe altrui come si guardano i miliardi quando passano per la strada”.
A trentasei anni, alla conclusione di una difficile storia d’amore, a Brambilla scrive addirittura: “Mai avrei pensato che nella vita si potesse provare una cosa simile. Sposarla? Ma è un’idea assurda. Vivere con lei? Ma ne nascerebbero tali pasticci, dolori per mia Mamma, sofferenze per me, che non posso neppure pensarci. E allora? Allora soffrire, senza trovare nella vita alcuna attrattiva”.
Non sorprende che l’autore, sessantenne, abbia vissuto in maniera patologica l’amore per una giovane destinata a trasformarsi nella Laide di “Un amore”. È infatti nel ‘63 che Buzzati stupisce il mondo letterario pubblicando questo romanzo dalle situazioni spinte.

L’AFFIEVOLIRSI DELL’AMICIZIA

Gli anni passano. Arturo si è sposato e ha messo al mondo due figli. I due amici si vedono e si scrivono sempre più raramente (le ultime lettere corrispondono al periodo in cui Buzzati trascorre la fine dell’estate in montagna); anche Dino si è innamorato e si è staccato dagli amici. Non resta a entrambi che la nostalgia per gli anni passati: “Ora un'ombra continua mi impedisce ogni serenità e io penso che sia dovuta soprattutto agli anni: dopo essere stato fino ai quarant’anni quanto mai tardivo, tantoché i coetanei mi sembravano pressoché miei padri, di colpo forse sono sceso all’altro versante e mi sento più anziano degli altri, e il mondo dei progetti, delle speranze, delle nuove imprese mi pare per sempre vietato”.

L’AMORE E LA MORTE

Alle 14.30 del 16 maggio 1963, il fratello di Arturo, Alberto Brambilla, telefona a Dino Buzzati: Arturo ha avuto un colpo mentre faceva lezione. Quando Dino arriva è ormai troppo tardi: Hilla (come lo chiamava negli ultimi tempi) è morto.
Nel ’66, Buzzati si sposa con Almerina Antonazzi e continua a sperimentare nuove forme creative, come la poesia e il fumetto. Ma all’inizio degli anni ‘70 la sua salute declina e nel ‘71 entra nella clinica “La Madonnina” di Milano. Ora, la sua perenne ossessione, la morte, convive con lui più che mai.
Indro Montanelli, che divise per trent’anni con lui e con Guido Piovene la stessa stanza al “Corriere della sera”, ripensava a quel periodo “con un misto di commozione e di terrore”: “Ho convissuto con due tipi, i quali, dalla mattina alla sera mi spiavano e si spiavano fra loro per vedere che smorfia avrei fatto se fossi morto; vivevano entrambi in compagnia della morte e la morte per loro ero io”.
Il pomeriggio del ‘26 gennaio 1972, poco prima di morire, Buzzati chiese uno specchio, dicendo: “Voglio sapere che colore ha la morte”. Osservò il suo volto di sfuggita, concludendo: “Si, è il suo colore: color asfalto, grigiastro”.

BIBLIOGRAFIA:

Buzzati Dino, Lettere a Brambilla (a cura di Luciano Simonelli), Mondadori, Milano, 1985
Toscani Claudio (a cura di), Guida alla lettura di Dino Buzzati, Mondadori, Milano, 1997


2 commenti:

  1. Utilizzare le lettere è un modo originale per ricostruire una biografia. Sicuramente il risultato non sarà un noioso elenco di fatti e cronologie, ma storia viva, affettiva, sentita.

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  2. Grazie mille per essere passata, Romina. E chissà che presto non ti capiti di leggere qualcosa di questo nostro 'piccolo' (si fa per dire) Kafka ;)

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